WILDERNESS, o dello Spirito di una Terra Selvaggia
“in un certo tipo di situazione la Natura diventa un potente catalizzatore, un acceleratore delle nostre facoltà di sentire, di pensare e di agire” (Pierre Restany in una conversazione pubblica al Museo Casabianca di Malo (VI) il 14.09.1979.)
Devo essere sincero, non riuscivo a capire, o meglio a leggere, l’opera di Claudio Polles, se non nel contrasto fra due culture: quella europea e quella australiana. Essa mi pareva costruita su un “intrigo” di relazioni tra la cultura aborigena così forte in Tasmania e il nostro dolce paesaggio collinare in Veneto che molti artisti ha ispirato — da Cima da Conegliano a Jacopo da Bassano, o lo stesso grandissimo Giorgione, con la sua Tempesta. In questo rapporto, poi, ho scorto la continuità della costruzione di un modo “originale” e “tradizionale” di dipingere, attraverso un uso rigoroso dei colori accesi e primari, come quelli di Polles, insieme alla tecnica del pennello che produce un “puntillismo” insistente, che egli riprende “all’europea”, sulla scia di Van Gogh.
Dopo aver visitato la Tasmania, dove egli per buona parte dell’anno vive immerso nella Natura, mi sono reso conto che questa terra così dolce e tanto simile al paesaggio scozzese della “vecchia” Inghilterra, ricorda molto da vicino il paesaggio collinare veneto e pertanto ho sospettato che il nostro artista “giocasse” in casa.
Ma, dove andava cercato questo suo “spirito selvaggio” (Wilderness), questo suo gesto pittorico da “espressionista lirico” più legato all’American Painting che all’Espressionismo tedesco?
Ho percepito il suo Wilderness, quando mi sono fermato in più occasioni a guardare quel mare sconfinato e potente che è l’oceano. L’ho colto mentre si espandeva con questa luce che improvvisamente va dal sole alla pioggia, passando attraverso nubi spazzate dal vento, ora nere ora bianche, come “batuffoli” di cotone e quando si ammantava un cielo stellato cui noi — uomini della “civiltà delle macchine” e della “illuminazione elettrica” — non siamo più abituati, tanto è blu e tanto splendide e brillanti sono le stelle. Questa terra reca in sé l’impegno di milioni di anni di storia geologica e ne porta tutte le tracce, tutte le spaccature, tutte le impronte lasciate da una natura mutevole, che nel tempo si ridisegna solo per mezzo degli elementi atmosferici, al di là dell’uomo, se non oltre. E per contrasto ci sono anche le isole in cui è progredita la civiltà dell’uomo, che sfoggia i campi ben arati per i suoi fiori o per i suoi pascoli verdi. È ben poca cosa, però, la mano dell’uomo in un territorio così vasto e sconfinato. Questo tentativo di addomesticare la natura è racchiuso dentro intricate foreste pluviali di un verde brillante o dentro praterie e sentieri che si possono paragonare ad “alpeggi” su cui cavalli, pecore, montoni e tanti altri animali liberamente pascolano guardati da lontano. Ecco che si può cogliere, qui, la corrispondenza che c’è tra il “lavoro della natura” e la storia dell’uomo che la abita; come, ad esempio, nell’arte della pittura inglese dei Gainsborough (1727/1788), dei Constable (1776/1837), dove il paesaggio dipinto si apre alla campagna, ai suoi umori, alle sue brume, ai suoi lavori campestri con vacche e contadini fino ad aprirsi all’“Immenso” con il romantico Turner (1775/1850).
Ora, dopo queste considerazioni generali, si può affrontare il nodo del Wilderness nella pittura di Claudio Polles. Egli, di un paesaggio, ne scandaglia lo Spirito emotivo; della natura selvaggia ne coglie l’emozione profonda suscitata dalla nostra esistenza, incapace e inerte di fronte alla forza primordiale della Natura stessa. Gli scorci che egli dipinge trattano della “Natura naturale”, non ancora del tutto “naturata”, cioè interamente prodotta dall’uomo. Il “suo” paesaggio e la “sua” Natura si presentano ancora incontaminati dalla corruzione della civiltà. Polles vive questa esperienza nel proprio profondo, con tutte le difficoltà e i contrasti del caso. Ne percepisce e ne rappresenta le commistioni presenti in quello che si potrebbe definire lo sviluppo che ha avuto la “civilizzazione” di questa terra: da un movimento tellurico dei sentimenti suscitati da un incompleto ciclo evolutivo grazie ancora alla presenza aborigena, insieme al contrasto apparentemente sereno della colonizzazione “forzata”, avvenuta col sangue e col sudore dei condannati là “deportati” e “trapiantati” a forza. Nelle sue opere, lo spirito del luogo diventa lo spirito del tempo, della storia. Esso s’incarna e si trova presente nei nativi aborigeni, così come s’incarna e si trova presente nella conquista dei forzati che ri-costruirono palmo a palmo una nuova terra.
E’ impensabile che non si sia avuta un’identificazione fra territorio e abitanti, come ci spiega lo scrittore G.L. Mosse nel suo “le Origini Culturali del Terzo Reich” (Saggiatore, Milano 1994). Il Paesaggio tedesco incarnava lo spirito pietista e romantico con tutto il suo passato storico, tanto da renderlo inscindibile dalle sue vallate dolci, anche se tormentate dalla Guerra dei Trent’anni, o dai passaggi di orde barbariche antecedenti. O ancora, si pensi alla nostra Toscana, terra di grandi contrasti e guerre fra “città-stato”. Tutto questo non può che produrre senso, non solo contemplazione estetica. Si tratta di trovare le radici comuni della condizione umana e confrontarle con l’evoluzione di una cultura, fatta di conquiste territoriali e di progresso sociale. Gli eventi, infatti, segnano i passaggi delle evoluzioni culturali, sociali e linguistiche di un uomo con le relazioni che instaura col territorio, e questo non può che produrre Storia. Solo la Storia ci fa cogliere aspetti e umori, che si tramandano: o con la memoria di gesti o col racconto di episodi rintracciabili nell’evoluzione della propria esistenza, ed è percepibile anche dentro una cornice paesaggistica, con cui si assaporano i rapporti colti da una “coscienza civile”. Questo è quello che è accaduto a Claudio Polles: egli sente questa natura selvaggia, indomabile, piena di storia e sofferenza umana, e la propone nella sua pittura agitata e “segnica”. Ciò non toglie che l’occhio dell’artista cerchi un equilibrio nell’evocare un ambiente naturale “primordiale”, dove le cose, da sempre, sembrano in uno stato in cui non vi è contrasto o lotta fra esseri viventi, mentre gli elementi naturali sono in armonia con la scena rappresentata. Questo sguardo di una natura in equilibrio suscita ammirazione, oggi, specialmente perché si fa fatica a “ricordare”, nella nostra frenetica vita quotidiana, quello che i suoi dipinti raccontano di una primigenia “vita naturale”: con pesci che nuotano giocosi in acque trasparenti, od uccelli che piroettano, oppure cani che corrono liberi. L’adattamento è una delle prerogative della vita e sappiamo quanto esso sia resistente e mutevole soprattutto in quelle zone: prova ne è che è passato per questa terra Charles Darwin il teorico dell’evoluzione della specie.
Claudio Polles cronologicamente e artisticamente viene dopo Hans Heysen, pittore fra i più alti, se non il primo della modernità, che è vissuto in Tasmania. Voglio specificare come l’esperienza di quest’ultimo, pur europea per formazione e frequenze — Parigi, Venezia, Scozia etc.. — rimane, pur tuttavia, dentro una pittura di contemplazione dovuta al periodo storico in cui si forma la sua cultura artistica: fra le due Guerre Mondiali. Si può dire, nonostante ciò, che la sua formazione risente ancora di tutto il clima realistico/naturalistico del secolo precedente positivista: l’Ottocento e l’inizio del Novecento, secoli di grandi ideologie. Con Polles, invece, ci troviamo in un ambiente storico diverso, che segna un’altra crisi spirituale profonda dell’individuo, quella di chi è vissuto durante il periodo della Guerra Fredda fra USA e URSS. Una crisi che è durata una cinquantina d’anni. Questa situazione pone all’arte europea un ripensamento totale dei propri riferimenti linguistici ed espressivi. Dapprima la crisi dell’artista si manifesta con un’introversa identità esistenziale, che porta all’esplorazione emotiva interiore delle manifestazioni di segni e di atteggiamenti psicologici, i quali si producono anche nella banalità delle azioni quotidiane, specie se si seguono le interpretazioni (o “ragioni”) fornite dalla corrente psicanalitica, o da quella più filosofica dell’Esistenzialismo. Con l’avvio della ripresa economica, però, il segno si pone esteriormente, sulla superficie, senza introspezione, e s’identifica nell’oggetto di consumo. In questo modo prende l’avvio tutto il ciclo della Pop Art negli USA, di cui contro si ha la risposta europea del Nouveau Réalisme di Pierre Restany, il quale si attornia di un gruppo di artisti francesi e italiani, che rispondono in maniera alta e colta allo strapotere artistico del New Dada americano.
Restany pose una serie di problemi alla crescente esigenza di una natura che andava ripresa e reinserita nella vita quotidiana: in che modo “l’uomo” poteva ri-trovare la sua “naturalità” sopita dalle metropoli, circondato, fra l’altro, dagli oggetti di consumo?
Qui tralasciamo il dibattito di quegli anni fra oggetto e soggetto, che proponeva un’arte ancora materiale contrapposta allo spirito. La svolta vera si avrà qualche anno dopo, sempre grazie all’intervento di Pierre Restany, che già aveva avuto delle enormi intuizioni critiche, negli anni Sessanta, a proposito di una poetica sul concetto di Immateriale dentro l’opera di Yves Klein (vedi: il Salto nel Vuoto, o ancora Zone di Sensibilità Immateriale, o IKB –International Klein Blue-. Tutte opere queste che si basavano sull’influenza della teosofia cosmologica di Heindel e della filosofia Zen, le quali identificavano lo Spirito con lo Spazio e lo indicavano col colore puro, simbolo della libertà mentale e fisica).
Quando Restany, che per quarantadue giorni attraversò in barca la parte fluviale della foresta Amazzonica e da Manaos scese sino a San Carlos in Venezuela, trascorse questo periodo circondato dalla “natura amazzonica”, notte e giorno, con i ritmi che questa dettava durante la stagione delle piogge, si trovò lontano dal controllo consueto del proprio ambiente vitale e si mosse in un territorio che gli era ostile e inospitale, che non gli permetteva l’uso di comuni oggetti della nostra società “civilizzata”; infatti, non poteva accendere la lampada di notte altrimenti gli insetti lo assalivano, o ancora, doveva concentrare la propria attenzione su ogni minimo rumore della foresta, che ascoltava assieme ai richiami degli uccelli e delle bestie o alle strida degli insetti. Tutto questo ebbe un effetto shock sul critico-filosofo, tanto che al rientro in Europa egli definì questo suo impatto con la Natura come “shock amazzonico”. Ne trasse un manifesto, in consonanza con l’ideologia artistica che si era sviluppata in Europa, nel quale proclamò l’avvento del Naturalismo Integrale. Era il 3.08.1978, e si trovava nell’Alto Rio Negro alla presenza degli artisti che con lui avevano trascorso i quarantadue giorni nella foresta: S. Baendereck e F. Krajcberg. Da quel momento ebbe inizio una nuova epoca per l’arte contemporanea: ecco succedere un periodo di pace possibile dove l’uomo comincia a riconciliarsi con ciò che abbiamo definito come la “forza” o lo “spirito” della Natura.
Solo una prospettiva, che abbia ricostruito cosa s’intende col termine “naturale” oggi, può fornire maggiori elementi per contestualizzare la pittura di Claudio Polles. Egli sente il bisogno di libertà, che può trovare solo dentro una pittura ri-conciliata con la Natura. La sua pittura dal taglio espressivo sia nel segno e sia nel tema, infatti, è resa libera e libertaria. Egli “illustra” i suoi idilliaci paesaggi e non ha obbligo alcuno, se non con il diretto Autore che ha creato questo continuo attraversare di uomini, animali e cose nei territori. Di fatto, l’uomo nella pittura di Polles è poco più di un “ectoplasma”, niente più che una figura dalla forma umana che è simile alle altre forme viventi. Egli è solo uno dei tanti organismi biologici viventi, ritratto insieme ad altri organismi biologici viventi, di altre specie, e tutti uniti nello stesso ciclo di nascita: vita e morte di un territorio. L’uomo fa parte della natura, non è la natura, né ne incarna lo spirito; come di solito si tende a interpretare quando si dà centralità alla figura umana in pittura. Se in Hans Heysen il Paesaggio è tutto il mondo, in Polles è, invece, il senso delle relazioni tra elementi del paesaggio che organizza il mondo interiore. Il suo “sé” si coniuga con la Natura e trova unione in un altro tipo di misticismo: quello che s’instaura attraverso le relazioni tra gli organismi presenti in un ambiente. Si può ri-scoprire come “si rappresenta” il Wilderness, solo per mezzo di una consonanza e di una stabilità momentanea suscitata da un’organizzazione che abbraccia la Natura senza alcuna paura, accettando il proprio ruolo di declino e di morte, in un mondo costituito da territori ed equilibri precari. Il Wilderness è l’accettazione di uno stato naturale.
È questo il momento più alto del rapporto fra la Natura e l’Anima, che induce a entrare in consonanza con ciò che è “rimasto primitivo”. Sarebbe facile invocare a questo punto la presenza della musica, soprattutto quella di Wagner; ma la verità è proprio questa: Polles ritrova nella natura il mito e la poesia originarie — (ricordo che egli è anche un poeta gnostico, dove la fisicità è un mezzo per ascendere alla felicità dell’anima) —. Il suo racconto visivo diviene, in fondo, un comprendere la Natura nel “suo spirituale” per darle completezza dentro la sua Anima; ciò è riscontrabile, se si osservano le varie relazioni configurate attraverso la sua rappresentazione pittorica. Tempo fa, definii istintivamente una “pittura d’anima”, la sua; e oggi sento di dover dire che questa affermazione è diventata ancora più pregnante di “verità”.
Boris Brollo
In Tasmania 10.02.2010