Il volto della pittura – Luigi Meneghelli

Tra laconiche e stridenti durezze espressionistiche e piacere tutto esibito dell’atto del dipingere, tra violente distorsioni sintattiche e stremati splendori cromatici; e ancora: tra forma e informe, tra incandescenza e purificazione, tra orgasmo ed estasi… La pittura di Claudio Polles sembra darsi come una sottile coniunctio oppositorum o come evento ossimorico, che mescola nel suo corpo perverso le più diverse possibilità del fare. Può, a prima vista, colpire la cifra immaginativa, il rimando elementare ad un volto o a una figura animale: in realtà l’immagine che non si ferma e non si chiude in se stessa, ma continua a slittare, a muoversi all’interno della superficie pittorica, quasi a rilevare che essa non è il fine, il punto d’arrivo dell’opera, ma il punto di passaggio in cui il gesto si fa più incandescente, più esposto, più efficace. Se infatti si osserva con maggior attenzione il quadro si può notare che ogni ipotesi formale è conseguita attraverso una pratica di incessanti contaminazioni, aggiunte, cancellazioni: e, dunque, attraverso una sorta di incontingenza esecutiva, di velocità, immediatezza, automatismo (che pare quasi non conoscere ideazione, progettualità). È un po’ come se qualcosa venisse con ostinazione fatto, disfatto, rifatto: un work in progress, una trama in corso, un lavoro in opera, i cui termini vengono precisati e nello stesso tempo spostati, mostrati e spinti alla deriva. E che lo spazio della tavola (il supporto reale-simbolico su cui s’infrange il gesto di Polles) non sia una vera trappola dove rinchiudere il “volto del mondo”, ma un continuum capace di concentrazioni e moltiplicazioni infinite, di infiniti sensi, di viaggi smemorati e ciechi, è sottolineato anche dal fatto che a volte l’immagine è portata fino alle soglie della distruzione, della lacerazione. In autoritratto con buco si ha addirittura una letterale violazione del dipinto, una forzatura dei limiti del quadro, che non è però lo sprofondo metafisico di Fontana, ma il segno crudele di Artaud, la rivelazione estrema dell’atto, la manifestazione della vita nel suo emergere primo. Ed è sempre verbo di Artaud: “Ho in me una potenza che non ha mai accennato a separarsi da me e sempre di più mi ritorna come al suo padrone”. E come non leggere anche l’intero lavoro di Polles quale trionfo dell’energia interiore e quale spinta inesausta della mano che riporta ogni soggetto dentro la propria azione, dentro il proprio impaziente aggirarsi nello spazio? Tutto, effettivamente, pare dirsi come pura “cosa pittorica”, come semplice miracolo cromatico: un hic et nunc emotivo, vibrante, eccitato. Eppure il problema della pittura dell’artista
italo-tasmaniano non si risolve in una assoluta esperienza eventica (come può essere per l’informale): in un’opera che si produce senza obiettivo, seguendo un’aleatorietà e un “a caso” che brucia ogni differenza di segno, ogni distanza tra arte e vita. Se è vero che ogni dipinto denuncia tutta l’urgenza, tutta l’oscura forza che l’ha creato, è anche vero che esso comunica qualcosa che va oltre i propri sussulti, oltre la memoria della mano che l’ha calcato, tracciato o, per dirla con R. Barthes, oltre “il corpo che l’ha battuto”. Ma è un oltre che on va rintracciato nell’elemento iconografico, nelle figure barbare, spigolose, irritate (perché sarebbe come fermarsi su un altro codice: su questioni di forma, di stile, ecc., quando, come già sostenuto, il linguaggio di Polles è un linguaggio del “tra”, anzi un mix di linguaggi). L’oltre casomai va cercato proprio nella barbarie, nella spigolosità, nell’irritazione con cui vengono colte (o forse è meglio dire alluse?) le figure: in quel desiderio d’avventura, in quelle disinvolte estreme del guardare, dell’essere rapaci, ubiqui, ecc. perseguite anche dai Futuristi. Certo: qui, nulla a che vedere con affanni ideologici, con odori di rivoluzioni. Ma l’antico bisogno di aprirsi ad un azzardo costante, ad una “sensibilità acuita e moltiplicata”, la ricerca di un’immagine mai finita (o infinita), appaiono evidenti. È un continuo misurarsi con dimensioni sempre più grandi, sempre più dilatate: perfino un dialogare con l’ambiente, attraverso l’impiego del dittico (che per Polles assume il valore di un quadro che rilancia la sua storia in un altro quadro, in un altro spazio). E poi c’è tutta quella danza materia (anzi, tutto quel folleggiare del colore fatto cadere a gocce, a fili, a onde) che, mentre pare strutturare l’immagine, in realtà la rende evanescente, inafferrabile, “volante”. È un impiego del segno in funzione esplorante, uno spingere il colore in avanscoperta, sacrificando alla rapidità dell’azione, alla fulmineità del movimento. Lo stesso Omaggio a Andy Warhol parla di questo vagare e dilapidarsi di tratti: essi non sono usati in vista di una resa attendibile dei caratteri somatici dell’artista americano quanto mobilitati per inseguire il loro perdersi, per evidenziare il loro sottrarsi, il loro svanire (un po’ come accade nelle immagini seriali dello stesso Warhol, che finiscono per fasi sempre più indifferenziate, sempre più distanti, quanto più vengono ripetute, moltiplicate). È il tentativo paradossale di comprendere il fuggevole, di arrestare il fluire delle cose, anche se questo comporta inevitabilmente rotture, strappi, “buchi” nella composizione: non sono “urli” (Munchiani), sono vuoti, cavità, pause della corsa forsennata della pittura. Così, in fondo, l’opera di Polles sembra visualizzare in qualche modo il pensiero fenomenologico di M. Merleau-Ponty (“l’esistenza è fin dalle origini una coesistenza”): essa è davvero un’interrogazione ininterrotta del mondo e di se stessa nel mondo: è un’immagine plurale, aperta, intimamente dialettica: è un organismo pulsante, una realtà processuale.

Luigi Meneghelli